Il Nilo è un fiume lungo. Ed è proprio lì che si trova la cesta col bambino, deposta da Iochebed la madre, che arriva la figlia del faraone per fare il bagno. La principessa scopre lo strano panierino e quando si china sul contenuto «vide il bambino: ed ecco, il piccino piangeva; ne ebbe compassione e disse: “Questo è uno dei figli degli Ebrei”.» La principessa ha capito tutto e la sua decisione è già categorica: lo vuole risparmiare. Eppure non può ignorare la posizione di suo padre che ha dato l’ordine di buttare nel fiume ogni bambino maschio che nasceva nel campo degli Ebrei. Per lei non ci sono dubbi: il bimbo che piange è condannato a morte da suo padre il faraone. Salvare il bambino significa infrangere i suoi ordini e rischiare le sue ire; significa opporsi, per non dire ribellarsi. È allora che interviene Miriam, la sorella del bambino. Esce allo scoperto e, dimenticando la sua umile condizione nei confronti della principessa, propone di trovare una nutrice fra le donne degli Ebrei. L’egiziana potrebbe cercare di trovarne una nel suo proprio popolo di appartenenza, ma accettando l’offerta di Miriam prende definitivamente posizione contro suo padre. Che cosa la spinge ad agire in questo modo? Difficile a dirsi, ma è chiaro che, confrontata al pianto del piccolo di tre mesi, si trova di fronte a una realtà che non conosceva. Forse, per la prima volta, misura l’orrore degli ordini di suo padre e di fronte a quest’ingiustizia, decide di prendere una posizione che può anche diventare una minaccia per se stessa. Senza dubbio non sa che risparmiando questo bambino, avrebbe salvato un popolo intero. È necessario saperlo per osare di fare una buona azione? La minima delle nostre decisioni può avere ripercussioni immense nella storia dell’umanità, ma bisogna sempre osare opporsi all’ingiustizia e all’orrore.